L’interesse di Heidegger per l’esistenza è legato alla convinzione che la filosofia debba occuparsi dell’essere; tale argomento può essere affrontato solo a partire dal soggetto che si interroga circa l’orizzonte dell’essere stesso, ossia l’uomo.
L’essere non è una cosa
Heidegger pone in evidenza un importante errore commesso dall’uomo, ossia l’oggettivazione dell’essere. Supponendo la domanda ‘cosa è x?’, in cui x rappresenta un animale o una persona o una pianta, si procederebbe elaborando una definizione circoscrivendo una ‘porzione’ nell’essere.
Quest’operazione è pressoché inattuabile al sorgere della domanda ‘cos’è l’essere?’, perchè quest’ultimo è l’orizzonte all’interno del quale possiamo elaborare qualunque definizione e su cui si stagliano tutte le cose. Esso è lo sfondo dal quale emergono tutti gli enti e dunque non è di per sè oggettivabile, pena la sua riduzione a ‘cosa’.
L’essere e l’uomo
L’interrogativo sull’essere non sarà pertanto finalizzato ad un’elaborazione di una sua definizione, ma ad una chiarificazione del suo senso. In Essere e Tempo, il filosofo affronta questo tanto dibattuto problema ontologico. Viene adottata un’espressione tedesca: Dasein, chiamata a rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo. Traducendo in italiano, Dasein significa ‘esser-ci’; la modalità d’esistenza fondamentale dell’essere umano è anche la capacità di trascendere la contingenza. Tuttavia l’uomo non è solo Dasein ma è anche ‘in-der-Welt-sein‘, cioè, è anche un essere-nel-mondo. Con tale espressione Heidegger intende riferirsi al particolare modo di essere dell’uomo, che non si dà mai come soggetto isolato e astratto, ma è costitutivamente aperto a un mondo di cose e di uomini a cui non può prescindere.
Modi diversi di essere
Heidegger mette in luce la differenza tra il modo d’essere dell’uomo e quello delle cose. Se queste ultime possono diventare oggetto di uno sguardo scientifico, volto a coglierne caratteristiche stabili e quantificabili, ciò non accade per il soggetto, che risulta sfuggente, continuamente «di là da venire». L’uomo non è qualcosa di definito una volta per tutte e il suo rapporto con il mondo non è solo gnoseologico, ma anche e soprattutto esistenziale: non vi è un “conoscere” dell’uomo che possa essere distinguibile dal suo “esistere”. Infatti noi esistiamo in quanto siamo “qui” e “ora”, siamo già da sempre situati e posti in una particolare apertura storica, satura di significati che ci vengono consegnati insieme alle cose. E in tale apertura l’esserci non è immutabile, ma è a sua volta “aperto” a infinite modalità di azione nei confronti della realtà. In altre parole l’essere umano è «progetto» e, quindi, come diceva Kierkegaard, «possibilità».
La categoria della possibilità
Questa categoria, apparentemente positiva, nasconde una grande problematicità. L’uomo, rileva Heidegger, deve in qualche modo conferire un senso alla propria vita; è, in termini filosofici, chiamato a essere «fondamento» della propria esistenza, ma risulta in se stesso infondato. Appare cioè fondato sul nulla in quanto «gettato» in una situazione che non ha scelto o programmato: è «progetto gettato». Quali sono le conseguenze emotive di questo fatto? Come vive l’uomo tale condizione? Secondo Heidegger egli percepisce il vuoto su cui poggia la propria vita grazie al sentimento dell’angoscia, che rappresenta la «tonalità emotiva» prevalente con cui si trova ad affrontare le scelte, le opzioni esistenziali. L’angoscia rivela l’«impossibilità delle possibilità»; denuncia il fatto che siamo esseri effimeri e finiti, destinati alla morte, di fronte alla quale ogni possibilità sembra dissolta.
La morte come possibilità più propria
La consapevolezza del fatto che la morte è la «possibilità più propria» dell’essere umano è, nello stesso tempo, la via per inaugurare una vita autentica. Nella quotidianità, infatti, pensiamo seguendo una logica strumentale e trascorriamo il tempo in chiacchiere, rimanendo all’interno dell’orizzonte limitato di una vita inautentica. “Anticipando” la morte, cioè ponendoci di fronte all’ ineluttabilità della sua evenienza, rendiamo di nuovo autentiche le nostre possibilità: ne riveliamo l’essenza di “possibile”, la non definitività, mascherata dalla banalità di una vita in cui «si fa» e «si dice» senza più pensare in modo autonomo. Esistere autenticamente comporta l’accettazione della propria finitezza e precarietà, e pertanto la consapevolezza dell’illusorietà di ogni certezza. In questa prospettiva la scelta acquista un peso diverso: è scelta vera, radicale, perché consapevole del valore che dobbiamo conferire a ogni attimo destinato a finire.