L’attentato a Mussolini del 1926 e i suoi misteri irrisolti

Il contesto

Bologna, Domenica 31 ottobre del 1926. Per celebrare il quarto anniversario della marcia su Roma il duce ha scelto la città felsinea, dove, nel corso di una giornata con vari appuntamenti, ha inaugurato un gioiello architettonico che resterà nella storia: lo stadio Littoriale (poi Comunale, poi R. Dall’Ara), fortemente voluto da colui che a Bologna rappresenta la punta di diamante del fascismo: Leandro Arpinati.

Mussolini e Arpinati sono entrambi romagnoli, si conoscono dai tempi in cui uno era un leader socialista e l’altro un leader anarchico; in quel momento sono in ottimi rapporti anche perché dopo la bufera del caso Matteotti, Mussolini ha deciso di mettere la museruola agli squadristi facinorosi e di dare spazio ai fascisti in doppiopetto. Sei anni prima Arpinati faceva parte del primo gruppo (fu lui a guidare i fascisti all’assalto di Palazzo d’Accursio il 21 novembre 1920, assalto che impedì l’insediamento della giunta socialista regolarmente eletta e inaugurò il periodo della violenza squadrista) ma ora fa parte del secondo ed ha lavorato alacremente perché la città si mostri, agli occhi del duce, «fascista come mai».

Alle 9.30 Mussolini entra nello stadio a cavallo; è vestito con la divisa della milizia ma mette bene in evidenza i simboli delle onorificenze conferitegli dal re, per sottolineare che ormai il fascismo e lo Stato sono una cosa sola; fa un giro di pista e poi tiene il suo discorso pieno di ammirazione per l’organizzazione di Arpinati. Nel pomeriggio, all’Archiginnasio, presiede la prima seduta del XV congresso della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, alla quale partecipa anche il card. Nasalli Rocca, a cui piace molto il passaggio in cui il duce afferma che la scienza non può chiarire i misteri divini.

L’attentato a Mussolini del 1926: il linciaggio

Alle 17.40 quando Mussolini sta per lasciare la città, all’incrocio tra le centralissime via Rizzoli e via dell’Indipendenza, il corteo rallenta e dall’ala di folla alla destra dell’auto, un individuo esce brandendo un’arma da fuoco e spara verso Mussolini. Il colpo attraversa l’uniforme e la fascia dell’Ordine mauriziano portati dal duce, attraversa il cilindro del sindaco Puppini che gli siede a fianco e termina la sua corsa nell’imbottitura dello sportello dell’auto. In un attimo l’attentatore viene bloccato da due persone: il tenente Carlo Alberto Pasolini e il ragioniere in servizio d’ordine per conto dei fascisti locali Giovanni Vallisi, ma in pochi istanti una serie di squadristi si buttano sul corpo dell’uomo: il seniore della milizia Arconovaldo Bonacorsi lo tiene per un orecchio, mentre il centurione Mario Corradini di Castellarano (RE) lo prende a coltellate.

Si tratta di un linciaggio violentissimo e infatti si scatena il caos: colpi di pugnale arrivano da tutte le parti cosicché risultano feriti anche altri fascisti; alcune donne incitano gli assalitori con grida isteriche: «Ammazzatelo! Ammazzatelo!». Un delirio di violenza che continua ad infierire anche sul corpo ormai esanime che viene abbandonato nell’angolo diametralmente opposto, all’inizio di via Ugo Bassi. Il medico legale conterò 19 lesioni sul cadavere, tra cui 10 ferite da arma da punta e da taglio e persino un morso.

Chi è quest’uomo? La risposta è terribile: non si tratta di un uomo, si tratta di un ragazzo di 15 anni che solo a fatica viene riconosciuto dai suoi famigliari. Il suo nome è Anteo Zamboni, figlio di Mammolo. Di tutta la famiglia Zamboni, solo lui era voluto andare a vedere il passaggio del duce; il padre Mammolo è un tipografo ex anarchico amico personale di Arpinati che da tempo lavora per i fascisti ed anche Anteo è regolarmente iscritto ai Balilla. Tuttavia un indizio lo inchioda: Vallisi gli ha trovato in mano una pistola che il padre ha riconosciuto come propria.

L'attentato a Mussolini del 1926
L’attentato a Mussolini del 1926 ; Il corpo matoriato di Anteo Zamboni. Ph fonte: Scimmie Bianche – Facebook.

Le indagini e le varie ipotesi

Le prime indagini danno un risultato sconcertante: pare che il ragazzo abbia agito in modo del tutto solitario. In casa sua è stato trovato un appunto di suo pugno (almeno, così dice la perizia calligrafica) in cui c’è scritto “Uccidere un tiranno che strazia una Nazione, non è delitto, è Giustizia”; “Per la libertà morire è bello e santo”. A mano a mano che si indaga però le cose si fanno più complicate. Il proiettile rinvenuto nell’auto è compatibile con l’arma ma non è certo che sia stato sparato da quella. Il padre di Anteo aveva in casa un’altra pistola identica, e una terza pistola (non Beretta ma Mauer, sempre calibro 7,65) è stata trovata sotto il corpo di Anteo.

Piano piano cominciano ad emergere molte domande attorno all’attentato e all’attentatore e cominciano ad essere prospettati scenari alquanto diversi. Il primo dubbio lo aveva fatto sorgere lo stesso Mussolini che, descrivendo lo sparatore che aveva avuto modo di vedere, parlò di un giovane di media statura con un cappello floscio. Arpinati (che conosceva la famiglia) diede una descrizione più rispondente a quella del ragazzo ma solo dopo aver saputo che era il figlio dell’amico Mammolo fu certo che si trattasse di Anteo.

In realtà nelle testimonianze compare anche un uomo con un gabardine anche lui armato che, dopo lo sparo, avrebbe indicato in Anteo Zamboni lo sparatore. Questa presenza ha aperto la strada ad una ridda di ipotesi che possono essere sintetizzate come segue:

1) Anteo Zamboni fu effettivamente l’attentatore di Mussolini ed agì in totale solitudine;

2) Anteo Zamboni fu davvero l’attentatore di Mussolini ma agì su istigazione di qualcuno (i familiari che non erano presenti? Un anarchico? Un fascista o un gruppo di fascisti che volevano sostituirsi a Mussolini?);

3) Anteo Zamboni non fu l’attentatore ma chi sparò davvero, resosi conto che il colpo non aveva ottenuto l’effetto desiderato, scaricò immediatamente su Anteo la responsabilità del gesto.

Queste ipotesi, alcune delle quali potrebbero sembrare fantasiose, in realtà sono state vagliate attentamente alla luce di altri informazioni molto importanti. Ad esempio che ci fossero fascisti scontenti della svolta “moderata” di Mussolini era vero, e il più agguerrito di tutti era senz’altro Roberto Farinacci, ras di Cremona, che fu visto a Bologna nonostante fosse l’unico dei maggiorenti non invitato ai festeggiamenti perché già entrato in rotta di collisione con il duce. Inoltre pochi giorni prima dell’arrivo di Mussolini a Bologna, il prefetto di Udine aveva segnalato una voce arrivatagli che parlava di un possibile attentato in quell’occasione. Anche in Friuli c’erano state feroci lotte tra fascisti per cui i perdenti e scontenti (l’ala più intransigente) aveva molte buone ragioni per colpire Mussolini. In questo ginepraio, la giustizia fascista decise di mettere sotto accusa tutta la famiglia Zamboni che, con un processo farsa, venne ritenuta responsabile nella persona del padre di Anteo Mammolo e della zia Virginia. Chi volesse saperne davvero di più su tutta la vicenda, può leggere il bel libro di B. Della Casa, Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni (Bologna, 2000) che con grande lavoro sulle carte esistenti, cerca di sciogliere alcuni degli intricati nodi della vicenda, da cui emergono anche le ambiguità profonde che esistevano tra un certo mondo fascista e certi ambienti dell’anarchia, da cui veniva una parte consistente e vivace delle adesioni al fascismo.

Le conseguenze storiche dell’attentato a Mussolini del 1926

Quello che tuttavia fu più importante furono le conseguenze di questo attentato, il quarto operato contro Mussolini da quando, dopo il discorso del 3 gennaio 1925, era diventato il tenutario solitario e assoluto del potere in Italia. Il duce infatti approfittò di questo evento per dare la stretta finale contro le opposizioni e limitare del tutto la libertà di associazione, di stampa e di pensiero (Leggi fascistissime). Fu Luigi Federzoni a proporre, nel consiglio dei ministri del 5 novembre una serie di misure eccezionali, mentre Alfredo Rocco propose la creazione di un Tribunale speciale per la difesa dello Stato che sarà poi incaricato di gestire (in modo giuridicamente osceno e del tutto contrario alle norme più elementari del diritto) il procedimento contro i famigliari di Zamboni e in generale i reati contro la sicurezza dello stato e del regime.

In base a questi esiti, ci fu anche chi ipotizzò che l’attentato fosse un falso attentato, organizzato dallo stesso Mussolini per darsi la possibilità di operare questo ulteriore salto in avanti nella costruzione della propria dittatura totalitaria. A tutt’oggi non ci sono ulteriori elementi per fare luce su questi misteri ed è significativo che la figura di Anteo Zamboni abbia creato più di un problema nella gestione successiva della memoria, non essendo alla fine chiaro se fosse stato davvero un “martire” della causa antifascista o una vittima di un gioco molto più grande di lui. La morte orrenda che gli fu comminata dalla folla fascista inferocita avrebbe comunque dovuto mettere in guardia gli italiani su quale fosse la natura più profonda del fascismo e quali conseguenze sarebbero prima o poi scaturite da questa esaltazione continua ed esibita della violenza sanguinaria, manifestatasi in modo assai concreto nelle tante lame di pugnale che colpirono un ragazzo di 15 anni la sera del 31 ottobre 1926 a Bologna.

Marcello Malpensa

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