L’arduo equilibrio tra apertura alla modernità e fedeltà alla tradizione – Un profilo biografico di Giovanni Montini
Premessa
Citando il titolo di uno dei testi più noti e discussi di Paolo VI, questo profilo si apre con una rapida Nota explicativa preavia che suona così: se vi bastano i calembours e le etichette per definire un personaggio storico, questo profilo non vi interessa. Leggete pure i testi di chi lo ha perfidamente definito “Paolo Mesto”, o più rispettosamente e problematicamente “papa amletico”, o lo ha compresso in un unico atto (“il papa anti-pillola”): essi vi saranno sufficienti per tratteggiare in modo magari arguto, ma certamente sommario ed impreciso, la sua figura.
Se invece volete approfondire realmente il percorso storico, umano e spirituale di Giovanni Battista Montini, le biografie, i saggi storici, gli approfondimenti tematici relativi ai vari aspetti del suo pontificato certamente non mancano. Proponendosi di offrire un punto di partenza per questa seconda opzione, questo profilo mira a fornire un primo approccio alla figura di Paolo VI, ripercorrendo rapidamente in base a un ben precisa chiave di lettura la sua vita ed alcuni snodi fondamentali del suo pontificato, che si sviluppò a cavallo tra uno dei momenti più vivaci della storia recente (gli anni Sessanta) e quello del drammatico manifestarsi di tensioni e aspre contrapposizioni sia nell’ambito della vita ecclesiale, sia all’interno della società civile, pur in un quadro di persistente e forse ancora più ricca vitalità (gli anni Settanta). In sintesi, la chiave di lettura è questa: sentendo fortissima la responsabilità di essere chiamato a guidare il popolo cristiano in questi tumultuosi frangenti, per tutto il suo pontificato Paolo VI sarà impegnato a cercare un punto di sintesi e di equilibrio tra una sempre più urgente apertura alle varie manifestazioni della modernità (oggetto peraltro di una reale e partecipe curiosità da parte di Montini) e le spinte nella direzione della custodia di una tradizione, erroneamente ritenuta eterna ed immutabile ma comunque capace di far sentire la propria voce e rivendicare i propri spazi sia attraverso gruppi di pressione sia nella stessa interiorità spirituale del pontefice. Il quesito storico che ne consegue è chiaro: quali furono gli esiti effettivi di tale impegno da parte del papa?
Famiglia e formazione
Giovanni Battista Enrico Antonio Maria (questi tutti i suoi nomi) Montini nacque – secondo di tre figli maschi avuti da Giorgio Montini e Giuditta Anchisi – a Concesio (BS) il 26 settembre 1897; quattro giorni dopo fu battezzato. Se c’è un tratto che emerge immediatamente riguardo la famiglia d’origine esso è certamente la passione politico-sociale nel cuore del mondo cattolico: il nonno Lodovico nel 1848 fu tra i volontari che combatterono gli austriaci e poi uno dei fondatori del movimento cattolico bresciano; in età umbertina e giolittiana il padre Giorgio fu direttore del quotidiano cattolico “Il Cittadino di Brescia”, schierato su posizioni moderatamente conciliatrici per avvicinare i liberali moderati e contrapporsi all’anticlericalismo dei zanardelliani. Nel primo dopoguerra, Giorgio Montini sarà poi tra i fondatori del Partito Popolare a Brescia e sarà eletto in parlamento, ove rimarrà, mostrandosi sempre apertamente antifascista, fino al 1926, anno in cui decadde per aver partecipato alla secessione aventina. La vocazione politica fu portata avanti dal fratello maggiore del futuro Paolo VI, Ludovico, che fu membro per la DC all’Assemblea Costituente, poi deputato (1948-1963) e infine senatore (1963-1968), quando Giovanni Battista fu eletto papa. Nel primo quindicennio del ‘900 la formazione di G.B. Montini si svolse presso il collegio gesuitico “Cesare Arici” e molto importante fu, in questi anni, la partecipazione ai gruppi giovanili tenuti dagli Oratoriani di S. Maria della Pace, dove si prospettava un cattolicesimo aperto alle istanze sociali. In questo ambiente conobbe il padre P. Caresana, che divenne e restò a lungo suo confessore e col quale mantenne un carteggio fino all’anno della sua morte (1973). Per comprendere quanto la famiglia Montini fosse nota e rispettata nel mondo cattolico è sufficiente ricordare che nel 1907 i Montini vennero ricevuti in udienza privata da Pio X, udienza alla quale partecipò anche il decenne futuro successore. La vocazione di Giovanni Battista maturò però anche tramite la frequentazione della comunità di Benedettini esuli dalla Francia e stabilitisi a Chiari (Bs), sperimentando il fascino delle loro celebrazioni liturgiche. Entrato nel seminario di Brescia nel pieno della guerra (1916), la sua fragile salute gli fece compiere un percorso accidentato, che gli diede occasione di riflettere sul senso della sofferenza; nel 1918 fece parte del folto gruppo di animatori e collaboratori del periodico studentesco “La Fionda”, guidato da G.A. Trebeschi e mosso dal desiderio di portare una ventata di rinnovamento spirituale tra gli studenti; tra il 1919 e il 1920 compì il percorso verso l’ordinazione sacerdotale che avvenne nella cattedrale di Brescia il 29 maggio di quell’anno, per mano del vescovo G. Gaggia. Quasi a simboleggiare una sintesi dei luoghi e degli ambienti che sarebbero stati lo scenario del resto della sua vita, pochi giorni dopo G.B. Montini fu a Roma dove fu ricevuto in udienza privata da Benedetto XV e dove, tramite il padre, assistette alla seduta della Camera in cui F.S. Nitti ratificò la caduta del suo secondo brevissimo governo.
Primi incarichi
Nell’autunno 1920 Montini divenne alunno del Seminario Lombardo di Roma e s’iscrisse alla facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana ma, grazie a un permesso speciale del vescovo, anche a quella di lettere dell’Università statale di Roma; il percorso di formazione umanistica fu però drasticamente riorientato dal decisivo intervento di G.M. Longinotti – importante esponente bresciano del PPI e grande amico del padre – il quale nell’ottobre del ’21 lo fece incontrare con il Sostituto della Segreteria di Stato G. Pizzardo, che lo spinse ad iscriversi, nel novembre, nella Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici, luogo di formazione dei diplomatici pontifici. Passato quindi agli studi di diritto, tra il 1922 e il 1924 si laureò comunque in filosofia, in diritto canonico e in diritto civile, ma l’anno chiave di questa fase fu il 1923: da giugno ai primi di ottobre fu inviato a Varsavia presso la nunziatura apostolica (primo test diplomatico), mentre al suo ritorno, a novembre, fu nominato assistente del Circolo universitario cattolico romano aderente alla FUCI; importante fu anche il breve soggiorno a Parigi nel 1924, dove conobbe J. Maritain e J. Guitton. Furono i primi passi di un percorso che l’avrebbe portato in breve a diventare da una parte minutante in Segreteria di Stato (assumendo i titoli prima di cameriere segreto e per questo monsignore, poi di prelato domestico di Sua Santità) e dall’altra (ottobre 1925) assistente nazionale della FUCI.
Questo secondo incarico lo portò ad incontrare giovani universitari in tutta Italia presso i quali svolse, assieme al presidente I. Righetti, un’opera di formazione culturale e spirituale fondamentale per diffondere le tematiche principali del dibattito teologico europeo e preservare, almeno in parte, gli universitari cattolici dalla diffusione dell’ideologia fascista. In alcune lettere private Montini espresse le sue perplessità circa gli effetti spirituali del Concordato del 1929 ed è certo che il suo orientamento politico fosse antifascista. Tutto ciò però gli impose un costume di assoluta prudenza – giustificato anche dalla presenza di oppositori all’interno della chiesa, ovvero gli ambienti più proni a difendere ad ogni costo la pax concordataria – che se da una parte divenne un vero e proprio habitus del suo modo di procedere, dall’altra non lo preservò da critiche e attacchi che lo spinsero, nel febbraio del 1933, a rassegnare le proprie dimissioni da questo incarico.
In Segreteria di Stato
Frattanto importanti novità erano maturate anche sul versante della carriera diplomatica: dal febbraio 1930 il nuovo Segretario di Stato era diventato Eugenio Pacelli; in breve tempo Montini ne divenne uno dei più stretti collaboratori finché nel 1937 venne nominato Sostituto della Segreteria di Stato; altre nomine (consultore delle Congregazioni del Sant’Uffizio e Concistoriale e protonotario apostolico) suggellarono la sua costante ascesa nei ranghi del potere vaticano. Divenuto papa Pio XII, Montini restò Sostituto anche del nuovo Segretario di Stato Maglione ed affrontò con questo ruolo la terribile prova della guerra. Fu proprio Montini ad esempio a stendere il testo dell’ultimo disperato appello che Pio XII pronunciò via radio il 24 agosto del 1939, nel quale ricordava che “Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra!”. La recentissima apertura dell’Archivio Segreto Vaticano potrà certamente fornire ulteriori ragguagli sull’atteggiamento di Montini di fronte alla Shoah, ma già da ora sappiamo che, informato nel settembre 1942 dall’uomo d’affari dell’IRI G. Malvezzi dell’«incredibile strage» di ebrei di cui era stato testimone in Polonia, Montini riferì prontamente al segretario di Stato Maglione scrivendo: «I massacri degli ebrei hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose, incredibili eccidi sono operati ogni giorno». La Santa Sede quindi sapeva bene cosa stesse avvenendo agli ebrei sin dal 1942. Tra il 1940 e il 1946 Montini fu l’organizzatore e il fulcro di quell’Ufficio Informazioni del Vaticano che ricercava notizie su dispersi, prigionieri, internati per trasmetterle alle famiglie e che aiutò prima ebrei e antifascisti poi, a guerra finita, anche fascisti e nazisti. Il 19 luglio 1943, dopo i bombardamenti americani su Roma, egli fu al fianco di Pio XII che scese in mezzo alla folla, portando conforti religiosi ma anche denaro. All’arrivo delle truppe americane a Roma, Montini sarà un punto di riferimento per i servizi segreti militari che vedono in lui un informatore sicuro e un prelato di sentimenti democratici, antifascista ma anche decisamente anticomunista.
Alla morte di Maglione (1944), Pio XII ritenne opportuno non nominare un nuovo Segretario di Stato, per cui Montini e D. Tardini (segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari) divennero i due vertici della Segreteria di Stato, anche se Pio XII attese il 1952 per nominare entrambi prosegretari di Stato. La scelta del 1944 fu in parte dovuta alla volontà di Pio XII di mantenere il più ampio possibile il panorama dei contatti con l’esterno in una fase di delicatissima transizione.
Attraverso la sua prudenza, il suo senso della misura, la sua intelligenza politica, in questi difficili anni Montini fu in grado sia di obbedire lealmente al papa anche quando probabilmente le sue convinzioni personali su temi specifici erano diverse, sia di spalleggiare e difendere gli uomini di cultura (un nome su tutti, J. Maritain) e i politici (De Gasperi e, con maggiore cautela, la giovane generazione democristiana formatasi nell’associazionismo cattolico) che sentiva più affini alle sue posizioni. Eppure in curia c’erano molti elementi fortemente conservatori (in primis il card. Ottaviani) che non vedevano di buon occhio l’azione di Montini, il quale peraltro nel 1952 si attivò in modo deciso e consistente per impedire che andasse in porto l’«Operazione Sturzo», ovvero l’alleanza elettorale tra DC e MSI voluta dal papa e dal «partito romano» per impedire l’elezione di un sindaco comunista a Roma. Quella vicenda costò a De Gasperi la sorda ostilità di Pio XII (che gli rifiuterà un’udienza) e molto probabilmente fu un elemento decisivo per spingere Pio XII a nominare G.B. Montini Arcivescovo di Milano, allontanandolo dalla Segreteria di Stato senza peraltro conferirgli la berretta cardinalizia che tradizionalmente spettava a colui che reggeva la diocesi meneghina. Queste vicende confermano comunque il profondo interesse di Montini per la politica italiana, della quale conosceva da tempo percorsi e protagonisti.
Arcivescovo di Milano
Così il 12 dicembre 1954 Montini venne consacrato vescovo in San Pietro e poco meno di un mese dopo fece il suo ingresso in una Milano fredda e piovosa, di cui si inginocchiò a baciare l’asfalto umido (6 gennaio 1955). Per un sacerdote che non aveva mai avuto esperienze pastorali parrocchiali ma si era solo rapportato con i circoli intellettuali della FUCI poteva trattarsi di una vera e propria prova del fuoco, considerando che la città stava vivendo l’avvio del boom economico (e dei suoi risvolti consumistici) ma presentava anche rilevanti realtà e tensioni sociali (si pensi alla massiccia immigrazione proveniente dal sud del paese e alle condizioni di vita degli operai nelle periferie). In questo contesto la sua linea pastorale fu subito chiara: proporre un cristianesimo rinnovato in grado di trovare una compiuta mediazione tra la ricchezza della tradizione e le istanze migliori (in un’ottica cattolica, ovviamente) dell’umanesimo moderno.
Una delle prime iniziative in questo senso fu la costruzione di un numero rilevante di nuove chiese allo scopo di presidiare territorialmente le zone e i quartieri periferici, ritenuti più esposti, per varie ragioni, al fenomeno emergente della secolarizzazione sociale; molte di esse furono affidate ad architetti d’avanguardia portatori di un linguaggio architettonico essenziale e innovativo (il caso più noto è quello della Chiesa di Vetro di Baranzate); sempre per reagire alla secolarizzazione, sin dal suo arrivo a Milano Montini aveva cominciato a lavorare ad una grande “missione straordinaria” che si svolse dopo due anni di preparazione tra il 5 e il 24 novembre del 1957. Per venti giorni la città fu invasa da una miriade di predicatori e conferenzieri; essi parlarono nelle sedi parrocchiali ma l’invito a partecipare fu rivolto ai lavoratori entrando nei loro ambienti di lavoro. L’esito di questo sforzo fu interlocutorio, nel senso che se da una parte è innegabile che l’impatto reale e l’eco mediatica dell’evento furono grandissimi, dall’altra, poiché la missione venne esplicitamente rivolta ai “lontani e agli indifferenti” (ovvero a coloro che non partecipavano alla messa o non credevano), è significativo che nel tracciare un bilancio su di essa nel volume degli atti, il presidente del comitato esecutivo mons. Pignedoli scrivesse: “la Milano cattolica non ha avvicinato abbastanza la Milano dei fratelli lontani”.
In generale Montini cercò con insistenza un rapporto con il mondo del lavoro, andando a visitare gli operai nelle fabbriche e nei quartieri in cui vivevano; nel contempo però curò anche i rapporti con l’alta borghesia imprenditoriale cittadina, dalla quale ottenne finanziamenti sia per le nuove chiese sia per l’organizzazione della missione. Dopo la morte di Pio XII ci fu l’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII ed è interessante che già in questo conclave Montini, ovviamente assente in quanto non cardinale, ricevesse qualche voto; nel primo concistoro indetto da Roncalli nel dicembre 1958 per la creazione dei nuovi cardinali egli fu collocato dal papa come primo nome nella lista, ottenendo così quella berretta cardinalizia che gli era stata irritualmente (ma certo non casualmente) negata da Pacelli. Nonostante la sua grande sensibilità per i problemi del lavoro e dei lavoratori, contrariamente a quanto all’epoca molti ritenevano, da arcivescovo di Milano Montini non si adoperò per favorire quell’«apertura a sinistra» che alcuni leader democristiani nazionali (e diversi tra quelli lombardi in modo più deciso) volevano attuare: pur non condividendo l’ostilità preconcetta dei settori più conservatori della curia romana rispetto all’apertura di credito della DC verso i socialisti, la strada da percorrere per lui non era il coinvolgimento di essi nel governo ma il rinnovamento morale e spirituale dei politici DC in grado di produrre una più forte sensibilità per la giustizia sociale, sempre restando però entro i confini del partito cristiano al potere. La nomina di G. Lazzati a direttore del quotidiano cattolico milanese «L’Italia» conferma questa linea: al professore Montini non chiese certo di appoggiare l’apertura a sinistra, ma di fare un giornale che desse spazio alle diverse voci che animavano il dibattito sulle questioni sociali all’interno del mondo cattolico e non si limitasse a riportare solo quelle più chiuse e conservatrici, come era accaduto sotto la direzione di E. Pisoni.
Il concilio e l’elezione a pontefice
La risposta del cardinal Montini all’annuncio del Concilio Vaticano II fu immediata e partecipe: rilevando l’ampiezza davvero cattolica (ovvero universale) che avrebbe assunto questa assemblea, egli affermò che il suo compito sarebbe stato quello di definire la Chiesa e il suo ruolo nella società contemporanea. Una sfida titanica ma anche un’opportunità unica per rilanciare la centralità del messaggio evangelico. Nel maggio del 1960 Montini scrisse a Tardini una lettera in cui indicava nel dialogo ecumenico una delle priorità del concilio, linea che ebbe modo di riaffermare all’interno della Commissione centrale preparatoria nella quale fu nominato nel novembre 1961. Fu in questo periodo che Montini intraprese alcuni viaggi all’estero, grazie ai quali egli poté intrecciare rapporti diplomatico-economici e conoscere in prima persona il volto mondiale che aveva assunto la chiesa; in particolare nel giugno 1960 ricevette la laurea honoris causa in diritto presso l’Università di cattolica di Notre-Dame in Indiana (USA), appuntamento durante il quale ebbe modo di colloquiare a lungo con il presidente USA D. Eisenhower, insignito in quella occasione dello stesso titolo; nel luglio del 1962 sarà invece il primo cardinale europeo a recarsi in Africa, visitando paesi in cui stanno lavorando grandi imprese milanesi.
Quando il concilio iniziò, Montini si schierò, prudentemente, con la maggioranza riformatrice sia con testi scritti sia con gli interventi pronunciati in aula, nei quali ribadiva l’importanza di occuparsi della natura della chiesa e la necessità di affrontare il tema della riforma liturgica. La prospettiva di prudente apertura emerge anche nelle lettere che il cardinale pubblica settimanalmente su «L’Italia» per tenere informati i diocesani sull’andamento dei lavori, la prima sessione dei quali terminò nel dicembre 1962.
Il 3 giugno 1963 Giovanni XXIII morì e il 21 giugno, dopo un conclave brevissimo, Montini venne eletto papa, assumendo il nome di Paolo VI. I conservatori avevano tentato di opporgli la candidatura del card. Antoniutti mentre i riformatori più decisi avevano in un primo momento puntato su Lercaro. La scelta di Montini apparve presto il migliore compromesso possibile, poiché certamente egli avrebbe proseguito il concilio e la sua riflessione sul ruolo della chiesa nella società contemporanea ma altrettanto certamente non sarebbe stato sordo alle istanze dei conservatori, in nome del valore supremo del dialogo e della capacità di mediazione da tutti riconosciuta. In realtà solo una piccola parte dei conservatori optò per sostenerlo; i suoi principali oppositori (i cardinali Ottaviani e Siri) mantennero fino alla fine la loro ostilità e questo, come si vedrà, getterà un’importante ipoteca sullo sviluppo del suo pontificato, apparso spesso “strattonato” tra frenate conservatrici, fughe in avanti e il profondo senso di responsabilità personale dello stesso papa, che lo spingerà talvolta ad assumere decisioni importanti in totale solitudine. Emblematiche a questo proposito le parole che scrisse all’indomani dell’elezione: «Bisogna che mi renda conto della posizione e della funzione che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, alla Chiesa, all’umanità. Vale a dire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini, come una statua sopra la guglia; anzi una persona viva, quale io sono. Niente e nessuno mi è vicino. Devo stare da me, fare da me, conversare con me stesso, deliberare e pensare nel foro intimo della mia coscienza»
Paolo VI e il Concilio
Nella messa del 7 giugno 1963 in ricordo di Giovanni XXIII, l’ancora per pochi giorni arcivescovo di Milano aveva espresso il desiderio che il successore proseguisse nell’opera di Roncalli, convocando la seconda sessione del concilio, dando un respiro maggiormente internazionale alla curia, rafforzando l’ecumenismo e la difesa della pace, promuovendo la collegialità episcopale seppur sempre in subordinazione all’esercizio pontificio del potere. Eletto papa, il 27 giugno Montini convocò per il 29 settembre la ripresa del Concilio; in alcune riflessioni personali dell’agosto successivo espresse nuovamente il sentimento di schiacciante responsabilità nella solitudine con cui stava vivendo la sua nuova funzione. Tutto questo si tradusse in alcune modifiche procedurali nell’organizzazione dei lavori conciliari ma soprattutto in un maggior protagonismo del pontefice che, desideroso di portare a conclusione i lavori il più rapidamente possibile e con il maggior consenso possibile sui singoli testi, intervenne sia per avocare a sé alcune decisioni scottanti (come ad esempio il celibato ecclesiastico e la liceità della contraccezione artificiale) sia per ribadire la propria supremazia, come attesta chiaramente la Nota Explicativa Praevia fatta inserire prima della costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium, nota che ribadiva come il collegio episcopale potesse esercitare il suo governo solo cum Petro e sub Petro. Più in generale, non essendo questa la sede per effettuare una puntuale disamina dei documenti conciliari (dalla quale, come risultante, emergerebbe comunque la continua tensione tra istanze di rinnovamento e limitazioni imposte dai settori più conservatori) è in qualche modo emblematico ricordare la scelta con cui Paolo VI reagì alla proposta di canonizzare il suo predecessore Giovanni XXIII direttamente in concilio. Consapevole che tale inusuale procedura avrebbe rafforzato la corrente degli innovatori, nel novembre 1965 dichiarò in concilio che la canonizzazione di Giovanni XXIII avrebbe seguito l’iter tradizionale (ovvero tramite processo canonico) e che sarebbe andata di pari passo con quella di Pio XII. In effetti l’esito reale di questo continuo sforzo di equidistanza fu per certi versi paradossale, perché se certamente portò a convergere su mediazioni la maggioranza dei padri conciliari, dall’altra spinse ad una maggiore radicalizzazione sia settori dei gruppi conservatori sia settori dei gruppi innovatori, con conseguenze che si manifestarono in tutta la loro forza nei 13 anni successivi del suo pontificato.
Paolo VI e il primo post-concilio (1965-1970)
La prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam, dell’agosto 1964, ribadiva la volontà di aggiornamento ecclesiale lanciata dal suo predecessore, avendo cura di specificare che si doveva trattare sia di un aggiornamento interno alla Chiesa sia di un aggiornamento nei rapporti tra essa e il mondo esterno. Ma per Paolo VI aggiornare voleva dire «innovare», ovvero rileggere e ricomprendere il contenuto di fede tradizionale per proporlo in modo adeguato al mondo moderno ma senza sostanziali mutamenti dell’impalcatura dottrinale. Certo nei primi anni del pontificato e nell’immediato post-concilio, gli elementi innovativi prevalsero su quelli della difesa della tradizione: ne è prova il lavoro fatto dal Consilium ad exequandam constitutionem de sacra ltiurgia, che, in attuazione della costituzione conciliare Sacrosantum concilium provvide alla traduzione nelle lingue volgari non solo della Scrittura ma dello stesso canone della messa, provocando le reazioni dei tradizionalisti legati all’uso del latino; il messale romano venne poi sostituito nel 1970 e comportò l’orientamento del celebrante verso il popolo, la cui partecipazione ai riti liturgici venne valorizzata. In curia romana vennero creati nuovi organismi esplicitamente rivolti a consolidare l’attenzione verso i lontani (al Segretariato per l’unità dei cristiani già formato nel 1964 si aggiunsero il Segretariato per il dialogo con i non cristiani e il segretariato per il dialogo con i non credenti) mentre nel 1967 la costituzione Regimini ecclesiae universae, ristrutturò in modo deciso i dicasteri curiali. Purtroppo la creazione di due nuovi uffici economici (Prefettura degli affari economici e Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, ovvero la banca centrale vaticana) non fu sufficiente a bilanciare l’esistenza dello IOR, banca di diritto privato fondata nel 1942 da Pio XII. Quando al vertice di quest’ultimo istituto arriverà l’americano P. Marcinkus, esso sarà coinvolto in torbide operazioni finanziarie abbondantemente oltre i limiti della legalità (scandalo IOR, che vide protagonisti il banchiere M. Sindona e R. Calvi, del Banco Ambrosiano). Altri importanti mutamenti a livello curiale furono l’esclusione dal conclave dei cardinali ultra-ottantenni (nel 1975 venne poi fissato in 120 il numero massimo di cardinali elettori), il congedo della nobiltà romana, lo scioglimento dei corpi militari pontifici, l’abrogazione della pena di morte (ancora vigente in Vaticano) e l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti, mentre è da segnalare l’innovazione assoluta dell’attribuzione del titolo di Dottori della chiesa a due notissime sante donne (S. Teresa d’Ávila e S. Caterina da Siena).
A ben guardare, però, la maggior parte di questi provvedimenti non faceva altro che eliminare gli aspetti più visibilmente anacronistici dell’istituzione ecclesiale; sulle questioni più delicate e attuali, invece, Paolo VI pubblicò documenti ed assunse decisioni che, nel desiderio insistente di trovare un equilibrio tra apertura alla modernità e ossequio alla tradizione e pur essendo da lui vissuti come atti di prudente equidistanza tra opposti estremismi, finirono di fatto per contribuire alla generazione di un clima ecclesiale teso, in cui settori di orientamento opposto potevano trovare nei gesti simbolici e nel contenuto del magistero papale sufficienti agganci per sostenere le proprie posizioni. Non potendo qui effettuare un’analisi cronologicamente puntuale di questo complesso intreccio, si proporranno solo alcuni esempi in coerenza con la chiave di lettura esplicitata all’inizio del profilo.
Tra gli esempi di concreta apertura e attenzione alle vicende dell’umanità sono senz’altro da ricordare i suoi viaggi all’estero: tra il 4 e il 6 gennaio del 1964 visitò la Terra Santa, mai toccata da un pontefice dopo Pietro; in questa occasione avvenne a Gerusalemme l’incontro e l’abbraccio con il patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora I, un gesto inusuale che anticipò di un paio d’anni la reciproca cancellazione delle scomuniche del 1054, proclamata il 7 dicembre 1965 alla vigilia della chiusura del concilio (ancora più sorprendente sarà dieci anni dopo, nel corso di una commemorazione dell’evento, l’inchino fino a terra di Paolo VI per baciare i piedi del rappresentante ortodosso). Poche settimane prima, il 4 ottobre, Paolo VI era intervenuto all’ONU dove, presentandosi come «esperto di umanità», aveva lanciato la sua invocazione alla tutela della pace, auspicando con forza la fine di ogni guerra: «mai più, mai più la guerra». L’ultimo grande viaggio all’estero di Paolo VI si svolse tra Asia e Oceania alla fine del 1970; nel corso di questo viaggio, a Manila, egli subì anche un attentato da parte di un pittore squilibrato che tentò di accoltellarlo; fortunatamente le conseguenze furono lievi. Un capitolo a parte meriterebbe la tenacia con cui Paolo VI portò avanti quella Ostpolitik (“politica orientale”) che noncurante delle striscianti accuse di tradimento verso le “Chiese del silenzio”, il papa affidò al «martirio della pazienza» del cardinale A. Casaroli, dal 1967 segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari (poi Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa), ottenendo comunque risultati apprezzabili i cui frutti sarebbero stati raccolti da Giovanni Paolo II in tutt’altro contesto storico.
Per quanto riguarda i documenti, grande eco ebbe l’enciclica Populorum progressio del marzo 1967 con la quale il papa metteva in evidenza l’inaccettabile divario tra nord e sud del mondo e chiedeva l’impegno dei cattolici ad agire contro queste sperequazioni attraverso un’intensa attività di riforme; un passaggio fece molto discutere a questo proposito, quello in cui si sosteneva che la persistente violazione dei diritti della persona che costringeva alla povertà milioni di uomini avrebbe potenzialmente anche legittimato il ricorso alla violenza per il ripristino di quei diritti. La conferenza episcopale latino-americana di Medellín nell’agosto del 1968 e l’uscita del volume di G. Gutierrez, Teologia della liberazione del 1971 dimostrarono che tale passaggio non era passato inosservato ma proprio per questo Paolo VI interverrà successivamente per limitare il senso e la portata di quanto aveva scritto. Dopo aver proposto una chiesa protagonista del riscatto sociale dei poveri e povera essa stessa, si chiarì che in realtà la chiesa esprimeva un’«opzione preferenziale» per i poveri e il cui scopo essenziale restava la salvezza soprannaturale (cfr. l’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi del 1975).
Tra gli esempi in cui invece prevalse la preoccupazione di Paolo VI di tutelare le ragioni della tradizione possiamo in primo luogo ricordare il motu proprio Apostolica sollicitudo con il quale nel settembre 1965 (a concilio ancora aperto, dunque) il papa istituiva il Sinodo dei vescovi: la funzione meramente consultiva e la rigida subordinazione al controllo pontificio e curiale dei lavori (spettava infatti al papa convocarlo e deciderne l’ordine del giorno) mostrarono come questo strumento che avrebbe dovuto rappresentare un deciso passo in avanti verso la collegialità episcopale non fosse di fatto in grado di svolgere tale funzione (al proposito è importante ricordare che aprendo nell’ottobre 1969 la prima Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo, che aveva come tema La cooperazione tra la Santa Sede e le Conferenze episcopali, Paolo VI ricordò a tutti che «la Chiesa non è una democrazia»).
La volontà di controllo sull’azione dell’episcopato si manifestò in modo ancora più chiaro quando, nel 1966, la chiesa olandese pubblicò un nuovo catechismo, che proponeva una presentazione del messaggio cristiano con uno stile più discorsivo, volto non a comunicare verità a cui aderire ma ad aiutare a credere partendo dall’esperienza concreta della vita; approvato dall’arcivescovo di Utrecht B. Alfrink (uno dei protagonisti del concilio) il catechismo fu sottoposto ad una revisione da parte di una commissione cardinalizia, che nel novembre del 1967 impose alcune aggiunte e precisazioni. La tensione tra Roma e l’episcopato olandese si era acuita anche in ragione dell’enciclica del giugno 1967 (Sacerdotalis coelibatus) con la quale Paolo VI chiudeva le porte ad ogni apertura sulla revoca dell’obbligo del celibato per gli ecclesiastici della chiesa di rito latino; questo testo era peraltro uscito una settimana dopo che il motu proprio Sacrum diaconatus ordinem aveva ripristinato il diaconato permanente al quale potevano accedere anche uomini sposati.
Fu tuttavia un altro il testo nel quale Paolo VI mostrò in modo più deciso di non voler dare spazio a un rinnovamento ecclesiale inteso come sostanziale revisione del magistero pontificio: l’enciclica del 25 luglio 1968 Humanae Vitae dedicata alla dottrina cattolica sul matrimonio (e quindi non solo alla pillola contraccettiva, come si scrisse e si disse sui media cartacei e audiovisivi). La questione era già stata posta a concilio aperto ma Paolo VI non volle che fosse oggetto di dibattito e l’avocò a sé; per tre anni una commissione (progressivamente allargata fino a raggiungere 72 membri provenienti da tutto il mondo e composta da vescovi, teologi, medici, donne laiche) aveva lavorato su questi temi e nel 1966 aveva concluso i propri lavori con due relazioni, una di maggioranza, che recepiva le indicazioni conciliari circa un riequilibrio del fine del matrimonio tra la dimensione unitiva e quella procreativa (e apriva all’utilizzo della pillola anticoncezionale nel quadro di una “paternità responsabile” affidata all’autonoma scelta dei coniugi) e una di minoranza che osteggiava qualsiasi mutamento temendo che ciò danneggiasse l’autorità dottrinale della chiesa e del papa.
Di fronte a questa polarizzazione, Paolo VI affidò a un gruppo di teologi conservatori il compito di approfondire ulteriormente il tema, mentre (a riprova della scarsa efficacia di questa istituzione) non tenne conto del parere di due autorevoli cardinali (L-J. Suenens e J. Döpfner) espresso nel corso del sinodo dei vescovi del 1967, che chiedevano un mutamento dottrinale. La scelta del documento pubblicato fu quella di escludere ogni forma di contraccezione artificiale: pur riconoscendo che il matrimonio non è finalizzato alla sola procreazione ma anche alla cura reciproca del benessere tra coniugi, ogni atto sessuale doveva restare potenzialmente aperto alla trasmissione della vita, quindi solo i metodi naturali potevano essere eticamente accettati dalla chiesa. Nonostante Paolo VI affermasse che non si trattava di un documento in cui era implicata l’infallibilità papale, un coro potente di aspre critiche si elevò contro l’enciclica sia dal mondo cattolico sia da quello laico; forse anche per questo Paolo VI non pubblicherà più encicliche fino alla fine del suo pontificato. A ben guardare però la questione non era soltanto di carattere etico; dietro a questa decisione c’era il timore di Paolo VI che una scelta diversa avrebbe minato il primato del papa. In questo modo l’autodeterminazione della coscienza accettata dal concilio come modalità con cui la fede può esprimersi in maniera più sincera nel mondo moderno (si pensi ad esempio alla rivendicazione della libertà religiosa), seppure limitatamente a questo ambito, veniva negata in nome della riproposizione di verità oggettive che dovevano valere per tutti. Qualcosa di paragonabile si può vedere anche in relazione ad un altro tema, quello della promozione della pace. Fu infatti Paolo VI a istituire dal 1 gennaio 1968 e per il 1 gennaio di ogni anno la Giornata mondiale di riflessione e preghiera per la pace, a testimonianza della volontà di fare di questo tema un impegno costante e duraturo per tutta la chiesa; tuttavia l’omelia che denunciava duramente i bombardamenti americani sul Vietnam pronunciata nella cattedrale di Bologna proprio in quella prima occasione dal cardinale arcivescovo G. Lercaro fu sanzionata dallo stesso pontefice con l’imposizione delle dimissioni del prelato. Tutela della pace sì, ma senza uscire da un’astratta equidistanza che, in quel caso, diveniva acquiescenza allo strapotere militare americano.
Paolo VI, il secondo post-concilio e la tragica conclusione del pontificato (1971-1978)
Queste forti tensioni finirono certamente per logorare Paolo VI, che anche negli ultimi 8 anni di pontificato si trovò a combattere per mantenere una linea intermedia tra chi voleva portare il cattolicesimo su posizioni più radicali (soprattutto in materia di tematiche sociali) e chi lo voleva riportare all’età tridentina. Senza dubbio il fenomeno della contestazione ecclesiale (di cui l’occupazione della cattedrale di Parma nel 1968, il movimento studentesco in Università Cattolica, la vicenda dell’Isolotto a Firenze erano stati la punta dell’iceberg) sembrava l’elemento più visibile, ma dietro le quinte e in curia i tradizionalisti non erano meno pervasivi nella loro opera di contrasto all’innovazione. Che tali preoccupazioni agitassero interiormente Paolo VI lo si poté verificare il 29 giugno del 1972, quando, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, il papa pronunciò un’omelia nella quale utilizzò un’espressione inusuale, che rifletteva lo stato di angoscia e di frustrazione nello sperimentare come la sua interpretazione del concilio in chiave di mediazione tra tendenze opposte, non avesse ottenuto i risultati sperati: «da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto dominano il campo e non ci si fida più della Chiesa; il concilio doveva portare il sole ed invece è arrivata la tempesta. La causa di tutto questo è per Paolo VI l’intervento del Maligno, del diavolo.
Con questa amara consapevolezza il papa affrontò le ultime sfide del pontificato, fino alla più dura. Indisse per il 1975 l’Anno Santo, durante il quale, come segno della volontà di reagire a questa situazione, pubblicò l’esortazione apostolica Gaudete in Domino, dedicata alla gioia cristiana; sotto il profilo mediatico il giubileo rappresentò certamente un successo, ma lo spazio concesso al supporto di massa fornito al papa dagli emergenti movimenti ecclesiali (Comunione e Liberazione e il Rinnovamento nello Spirito) sembrò piuttosto incarnare la nostalgia di un cattolicesimo muscolare, romanocentrico e papolatrico, che era altra cosa dalla «scelta religiosa» compiuta già da qualche anno – con maggiore fedeltà al concilio e alla linea di Paolo VI – dai vertici dell’Azione Cattolica, dalla quale erano scaturiti i frutti contraddittori di un calo quantitativo degli iscritti a fronte di una maggiore profondità della cultura cristiana, basata su una sempre più approfondita conoscenza delle Scritture e su una pratica liturgica realmente partecipata.
Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana che la CEI organizzò per la prima volta a Roma nell’autunno del 1976, seppure riferito alla sola situazione italiana, può essere eletto a emblema della situazione di stallo a cui era giunta la linea di mediazione impostata da Paolo VI: se infatti il convegno fu in grado di delineare con chiarezza le problematiche della chiesa italiana del post-concilio e la loro stretta connessione con i mutamenti politico-sociali in atto nel paese, la proposta conclusiva di creare un organismo permanente di partecipazione dei laici al governo della chiesa che riflettesse il pluralismo delle voci ecclesiali cadde nel vuoto. Nel luglio dello stesso anno era avvenuta la sospensione a diviniis dell’arcivescovo tradizionalista M. Lefebvre, che in dura contrapposizione contro la riforma liturgica conciliare, aveva fondato la Fraternità sacerdotale san Pio X all’interno della quale ci si ostinava a ritenere valida solo la tradizione liturgica di San Pio V: un’ulteriore dimostrazione delle conseguenze polarizzanti della linea di equidistanza tra apertura e tradizione.
L’ultimo anno di vita di Paolo VI, il 1978, fu segnato dal rapimento e l’uccisione di A. Moro da parte delle Brigate Rosse. Il legame di Paolo VI con la politica italiana e con il partito cattolico era inscritto nella sua storia personale ma il rapporto con Moro era ancora più profondo e personale. Il suo drammatico appello del 21 aprile affinché lo statista fosse liberato senza condizioni e l’omelia tenuta nel corso della commemorazione funebre dell’uomo politico il 13 maggio rappresentarono tutta l’impotenza e lo smarrimento del pontefice rispetto a un mondo che gli appariva sempre più indecifrabile. Se il discorso alla luna di Giovanni XXIII nell’ottobre del 1962 può rappresentare il simbolo delle grandi speranze apertesi nella stagione del concilio, l’appello alle BR e l’omelia di Paolo VI manifestano la drammatica impotenza di un papato che, pur avendo deciso di abbracciare fraternamente la modernità, non aveva saputo realmente trovare con essa una piena sintonia, perché restando schiacciato tra i moniti e le paure dei profeti di sventura conservatori e le velleitarie fughe in avanti dei radicali, non era riuscito ad impostare una linea solidamente riformista, capace di soverchiare le opposte tendenze con una marcia sicura e solidamente costruttiva. Occorre comunque aggiungere che tale compito non era affatto facile e non lo sarebbe stato, probabilmente, per chiunque altro.
Malato e provato nello spirito, Paolo VI morì a Castelgandolfo il 6 agosto 1978; il 12 agosto sul sagrato di San Pietro fu celebrato il funerale; la bara, sobria e di legno chiaro, fu sormontata dal Vangelo aperto. L’11 maggio 1993 Giovanni Paolo II incaricò il cardinale C. Ruini dell’apertura del processo di canonizzazione; il 19 ottobre 2014 papa Francesco lo ha proclamato beato; il 14 ottobre 2018 è stato canonizzato come San Paolo VI.
Marcello Malpensa