Sharon Tate
Successivamente alla nuova uscita tarantiniana (C’era una volta a… Hollywood, Once Upon a Time in… Hollywood, Quentin Tarantino, 2019) si è fatto un gran parlare della vicenda concernente l’uccisione di Sharon Tate. La giovane attrice, moglie del regista Roman Polansky, era incinta e in fase di decollo della propria carriera, quando venne brutalmente uccisa da alcuni membri della setta di Charles Manson in circostanze mai del tutto acclarate. Sulla scia del film di Tarantino sono proliferati articoli, saggi, documentari sulla giovane donna, e persino un altro film di tipo narrativo uscito quasi in contemporanea con il più illustre gemello (Sharon Tate – Tra incubo e realtà, The Haunting of Sharon Tate, Daniel Farrands, 2019). Nel film tarantiniano la Tate è impersonata da una splendida Margot Robbie, mentre nell’altro possiamo trovare una rediviva Hillary Duff. In C’era una volta a… Hollywood è possibile anche vedere, in una scena ambientata in un cinema, alcuni fotogrammi del film della Tate distribuito poco prima del suo assassinio, ovvero Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm (The Wrecking Crew, Phil Karlson, 1968). Ne uscirà solo un altro, postumo.
Vado ad inserirmi anch’io in questa scia di omaggi all’attrice prematuramente scomparsa, andando a prendere in esame però non la tragica fine dell’attrice, bensì i suoi esordi. Sebbene avesse già recitato in diversi film, il primo in cui la sua partecipazione sia stata accreditata è Cerimonia per un delitto (Eye of the Devil, J. Lee Thompson, 1966), in cui possiamo trovare tanto di tanto di annuncio “and introducing SHARON TATE”. A completare il cast troviamo star del calibro di David Niven, Deborah Kerr e David Hemmings (quest’ultimo noto in Italia per la sua parte da protagonista nel famoso Profondo rosso di Dario Argento, 1975).
Cerimonia per un delitto
Il film è assai ben orchestrato, tanto visivamente quanto narrativamente. Thompson ci aveva già abituato a perle di suspance come Il promontorio della paura (Cape Fear, 1962), e questo film è all’altezza delle aspettative. In particolare, alcune soluzioni di montaggio, sebbene non proprio originali, colpiscono perché inusuali in un film commerciale dell’epoca. Ed anche il personaggio della Tate, Odile de Caray, è in fondo un personaggio piuttosto inusuale, e sembra incarnare in sé il fascino ambiguo e magnetico che pervade l’intera pellicola. La vediamo aggirarsi con un’aria tra lo scanzonato e il malinconico, senza ben capire inizialmente quale sia il suo ruolo nella vicenda. E ci assale un senso di ironia tragica quando scopriamo che (SPOILER ALERT) appartiene alla setta che finirà per uccidere David Niven, ed essa stessa tenta di assassinare la moglie di quest’ultimo, Deborah Kerr. In effetti, pur essendo la sua prova d’esordio, la Tate è (e lo diciamo senza piaggeria) una delle cose migliori del film: bella, misteriosa, suadente; nella scena in cui parla ai bambini nel parco, operando la magia sulla rana, risulta (almeno in lingua originale) quasi ipnotica; e quando tenta di uccidere Deborah Kerr è capace di assumere un aspetto ferino.
Deborah Kerr
La Kerr, dal canto suo, risulta perfettamente a suo agio nella parte assegnatagli, forte di alcune esperienze precedenti in ruoli analoghi fra cui segnaliamo almeno Suspense (The Innocents, Jack Clayton, 1961). Siamo costretti invece ad avanzare delle riserve su David Niven, che sembra essere un po’ ingessato, a causa forse del film non proprio nelle sue corde e di una parte che, sebbene sia quella di un aristocratico, è troppo seriosa per permettergli di esibire la sua verve british un po’ sorniona.
Per favore, non mordermi sul collo
Insomma un ottimo esordio per Sharon Tate, attrice di cui confesso di non aver visto altri film sino ad oggi. Mi riprometto di visionare a breve il suo secondo film, Per favore, non mordermi sul collo! (Dance of the Vampires, 1967), che la vede collaborare per la prima volta con il suo futuro marito Roman Polanski. Potrebbe essere la scusa per iniziare un discorso su questo grande regista: perciò continuate a seguirci!